Webzine immaginale curata da Phoebe Zeitgeist
Aliena teatrale, in collaborazione con altri agenti subatomici di linguaggio

Riserva botanica
con Phoebe Zeitgeist, Luca Intermite, Shari De Lorian, Alice Bachman, Giovanni De Francesconovembre 2020

In Presenza di Virus

Chissà quanti tra noi avranno colto davvero le tante sollecitazioni a posizionarsi e raccontarsi, come opportunità di riflessione, rispecchiandosi nel bisogno di parola, analizzando i fastidi che da ciò derivano, perché tutto ciò che duole, lo sappiamo, batte su un'infezione in corso. L'invito al confronto e a dichiararsi, a parlarsi e confrontarsi nelle sfortune e nei bisogni, nelle angosce subite, partendo da noi stessi, suona come quelle richieste melliflue ma velenose che le mogli fanno o che le attrici fanno quando chiedono: “mi dici un mio difetto?”. Seguirà l'olocausto.

In effetti parlandosi per bene, occorrerebbe prima radere al suolo tanti pregiudizi o giudizi del pre, che vengono prima di ogni possibile dialogo. Noi siamo, ad esempio, una compagnia di presunti cattivi, persone ostiche, respingenti, escludenti. Questo è il raccontino di coloro che pensano che escludere, selezionare, levare, togliere, per arrivare all'osso, per raffinare la sostanza, nella ricerca di una e una sola cosa, sia l'accidente e non la sostanza. E' quello che vogliamo, non ci capita per caso: abbiamo infatti segni zodiacali splendidi.

Giovanni De Francesco, miodesospsia, n. 3, 2019, vernice spray su stampa a colori, 35x25cm

Eppure noi veniamo da quell'incanto culturale che non abbiamo più saputo rintracciare nell'oggi in cui, non per convenienza ma per amore - amore del suono della parola, della forma e amore anche di sé, bisogno di sopravvivere tra pari, bisogno di accoppiarsi, di infilarsi gli uni negli altri, per non restare soli - gli intellettuali si amavano tra loro, si difendevano, si davano a vicenda possibilità e sostegno. Oppure si contestavano apertamente, perché la differenza era - ed è - un valore, una bandiera, una capacità di vedere oltre e nel profondo, nell'intenzione profonda dell'altro, mentre tacere o ignorare è semplicemente da ignoranti. Per scansare Phoebe Zeitgeist è stata usata spesso la nostra stessa intenzione: siamo definiti complessi. Ma non siamo complessati. La complessità è la sola cosa reale del mondo vivente, della natura che ci cresce intorno e della civiltà come la conosciamo, dell'atomo e del pensiero. Non c'è niente di semplice. Per quanto le cose semplici ci siano di sollievo, come un fiorellino che sboccia (mentre la meccanica dei suoi petali, la sua ciclicità, l'orientamento del suo stelo, l'equilibrio con gli altri elementi, l'autosufficienza delle sue parti, l'orologio del seme che si apre alla vita solo quando è il momento) nulla è semplice, tranne il nostro sguardo che lì si posa e che non si interessa che dell'ultimo fenomeno, per spostarsi altrove, di fiore in fiore. A qualcun altro, invece che sorvolare, piace scavare, studiare e andare a fondo, sprofondare, ricercare, scendere ancora più sotto, nei cimiteri, tendere una mano agli amici morti, quelli che hanno detto prima e meglio di noi di che disagio e di che bellezza disumana siamo capaci. Anche su questo gli amici non amici parlano di trincea in cui ci vedono intruppati e nascosti, incapaci di scrivere nuovi testi e invece siamo capacissimi di non scriverli, di trovare le parole migliori, le più preziose gemme tra poeti suicidi, inascoltati e grezzamente tagliati fuori dalla società, in amici di fatto, il fatto di vivere o di non riuscire a farlo: a questi dobbiamo tutti molto, perché ci hanno generato e consigliato e ci amavano prima che noi sapessimo chi fossero loro, chi fossimo noi.

Don't let me glow video Alice Bachman, sound Shari DeLorian


Malagrazia // Phoebe Zeitgeist 'Pandemic Seed' video Luca Intermite

E invece, ci suggeriscono che si dovrebbe scrivere del proprio piccolo disagio, della cameretta, del nostro tempo senza storia che forse questa epidemia vuole finalmente significare; epidemia che guarda caso ha tolto la parola a molti, quasi a tutti. Non la parola propaganda, quella continua imperterrita a impestare la nostra comunicazione interpersonale, mediale, pubblico-privata. E' la parola letteraria ad esser venuta meno, sconquassata dalla morte in tv che è più forte di qualunque metafora possibile e ricercata. Ma anche qui, i poveri scrittori, analisti e critici, che lamentano il blocco e lo sgomento che taglia la lingua, non sanno di partecipare al rito sacro del silenzio? Non sanno della fortuna e del coraggio che ci vuole a restare muti e in piedi nella tempesta? O non conoscono l'intelligenza di mettersi a riparo? Forse no. In amabili conversazioni con il critico, che ringraziamo sempre di aver avuto perché abbiamo capito molto e imparato nulla, ci siamo spesso sentiti ripetere il problema del nuovo. Il nuovo! Cercare, scovare, sentire, produrre, sapere e profumare di nuovo. E' imbarazzante. Ed è un problema che l'artista non si pone: se lo pone il marketing del lavoratore dell'arte. Nessuno è nuovo e se tutto va come deve andare, siamo tutti decrepiti da appena nati, siamo radicati, siamo butti di una pianta centenaria. Siete anni Settanta, dicono alcuni, come se sapere significare le proprie radici e la propria nascita sia un difetto o capacità di tutti. Siete troppo densi, troppi argomenti, troppi punti: la gente non capisce. Siete vecchi, ma questo lo diciamo a voi: noi siamo cresciuti quando alla “dittatura dello spettatore”, come concetto, avevano già dedicato le biennali; noi il pubblico lo amiamo, carnalmente. Lo amiamo fino a volergli fare un dono devastante, fino a volerlo turbare, fino a riconoscere pienamente lo sforzo che fa rinunciando al suo comodo, legittimo, sudatissimo divano per venire a noi e non lo lasciamo andare a casa a mani vuote o con l'impressione di aver vissuto un'esperienza bidimensionale, descrittiva, univoca, non lo scomodiamo da casa per dirgli una cosetta, un problemino, un raccontino, e nemmeno per farlo sentire in colpa per quello che non è.

Giovanni De Francesco, miodesospsia, n. 5, 2019, vernice spray su stampa a colori, 35x25cm

E ora che abbiamo sciolto il pre, passiamo al pro. Il pubblico ci ha sempre premiato per le scelte fatte: abbiamo sempre il pieno, la gente ci scrive, si arrabbia con noi e poi ci segue ancora, ci chiede e pretende da noi, sempre più, sempre meglio. Ma non è un caso. Noi siamo cani, fedeli e rabbiosi, li seguiamo tutti, uno per uno, la maggior parte con amore, non lesinando qualche morso. Quando andiamo in scena chiamiamo tutti, avvertiamo tutti, non lasciamo che accada: lo facciamo accadere. Perché complessità, snobismo, cultura o intellettualità, questi due ultimi termini usati, povero dio, come insulti, non siano l'alibi per critici e lavoranti, per dire: non piacciono, non sono utili al nostro mercato, ai numeri che dobbiamo raggiungere. Noi non flettiamo, per questo siamo feroci e sfatti, stanchissimi, disperati, perché del cane facciamo tutte le parti: la testa, la coda, la zampa, la guardia fedele al freddo di qualunque casa. E non abbiamo mai rifiutato il lavoro, a nessuna condizione, in nessun luogo. Abbiamo detto sì a qualunque teatro di qualunque colore politico - anche se, a dire il vero, viviamo in un'unica grande sfumatura, che è quella della funzionalità e della mal celata verità che nessuno ce la fa, neanche i più ricchi, perché in questo Paese si è perso da quattrocentocinquanta anni e non da ieri, la capacità di usare gli artisti per far procedere civiltà, ingegno, mercato e anche sì, convenienza. E abbiamo detto sì, con gioia, proprio gioia piena, ai centri sociali, ai luoghi occupati, ai resistenti, ai separati, o almeno a quelli che ci hanno voluto, perché anche lì c'è chi si distingue dalla distinzione, ed è suo diritto farlo, ma noi andremmo ovunque e soprattutto nei luoghi dove c'è volontà di potenza, autodeterminazione, resistenza. Li sentiamo fratelli.

A questo punto possiamo scendere in confidenze: noi non ce la facciamo e come tutti quelli che abbiamo sempre amato, siamo sempre sul punto di finire, di auto terminarci e sparire. Anche se siamo genitori non abbiamo diritto al congedo parentale, primariamente perché da questo lavoro non ci vogliamo e non ci possiamo congedare. Le trenta giornate lavorative utili ad avere i seicento euro noi non le abbiamo, pur avendo lavorato trecentosessanta giorni l'anno. In quei cinque che mancano al conto, eravamo in down. Non le abbiamo perché aggiriamo, perché siamo pirati in alto mare e non possiamo fare altrimenti: tutte le volte che abbiamo seguito le regole abbiamo rischiato di pagare per lavorare. Difficilmente abbiamo delle produzioni perché siamo sempre sacrificabili perché siamo avvezzi al sacrificio, o per i motivi detti sopra e soprattutto se per valutare il nostro lavoro, invece di venirlo a vedere in sala (che è sempre aperta per tutti), a discuterlo nelle scelte che noi abbiamo pensato al millimetro, si chiede all'amico dell'amico che carattere abbiamo… Indovinate come va a finire.

Giovanni De Francesco, miodesospsia, n. 6, 2019, vernice spray su stampa a colori, 35x25cm

Se abbiamo produzioni, come le chiama oggi il sistema, consistono in una pacca sulla spalla, soldi che sono una minima parte del tutto, un'agibilità a nome terzi, uno spazio in cui provare che non ci serve, buttando già risorse e sangue in quello di nostra proprietà. E poi, infine, l'incanto migliore: farsi osservare attraverso il binocolo strabico dei bandi, questa ossessiva proposizione di bandi per la sola realizzazione di una stagione o di una presenza, la tristezza ultima e finale di un pensiero critico che langue. I bandi: tutta l'Italia prolifera di bandi. Si rischia di sfiorire sulla logica dei bandi: claim vistosissimi, etici e toccanti, in cui ciascuno di noi si sente sempre adatto e prescelto. Seguono poi selezioni che non fanno altro che premiare i già premiati, perché in tal modo qualificano se' stessi, cioè i bandi. Ciò detto, ci pare di poterci consolare: ci sono varie forme di miseria in questo campo, umana, culturale, una miseria tattica che fa guadagnare. Noi alla fine abbiamo scelto la nostra, quella che per ogni euro estorto alla vita ne mettiamo dieci sul lavoro, in attesa di crepare.

Ma in attesa di crepare, non può essere che così, noi continuiamo a immaginare. C'è una parola vagamente odiosa che sbuca di continuo sotto le parole gravi di tutti questi giorni, che si affaccia e fa capolino, ma timida, non ancora matura. Ricorda la radice di menta, che crea una rete sotterranea e poche piccole piante qua e là, fino a che non è la sua stagione: poi esplode, tutta insieme, e non c'è modo più di sradicarla per intero, la rete procede e si prende tutto. La parola è opportunità. Ci pare di aver intravisto da subito il sistema delle “opportunità'' stendere le sue radichette. Gli Stati risistemano le falle, i bilanci corrotti da decenni di corrotti, saltano i patti di stabilità che sono un meccanismo per non lasciare ai governi la crescita incontrollata delle loro piante preferite; carnivore. Ad esempio la Sanità sono anni che, raggiunta una discreta efficienza, domanda per uno stadio successivo, la super efficienza, com'è normale, com'è naturale per tutto ciò che è artificiale ed umano. La natura, la pianta, l'uccello, la zolla, si adatta giorno per giorno e si equilibra, si mette in equilibrio con la condizione che trova. L'uomo si efficienta e davanti a un livello raggiunto, per sua natura, punta e tende al successivo, mettendo in gioco l'equilibrio raggiunto senza troppi scrupoli, confidando in sé. Quindi questa disgrazia temporale che ci è capitata ha la vocazione di diventare una disgrazia storica, se circoscritta al sistema dell'efficientamento umano. Ecco dove serviamo noi, tutti noi, giardinieri dell'umanità, custodi della crescita, amanti spudorati della natura, anche quella umana, chi lo nega è un perverso, perché il teatro è l'arte più ultra umana che esista. Noi, a cui non è dato vivere in superficie, comprendiamo la poesia vitale della micorriza, il parassita che implementa la funzionalità della pianta. Chiedete a noi, a tutti noi, cosa immaginare, in una società che si deve ri funzionalizzare, noi che siamo capaci ora e sempre di spiegare i mostri mettendoli in versi, di fare scuola ad uno per volta, a dieci, a cento, noi che inventiamo la sopravvivenza ogni giorno, chiedete a noi di immaginare come ripartire, come continuare, come distanziare.

Giovanni De Francesco, miodesospsia, n. 7, 2019, vernice spray su stampa a colori, 35x25cm